Non aprite quella porta! – Storia di vita newyorkese. (II parte)
Tutto quello che segue è un racconto frammentato. Ho perso la facoltà cognitiva di ricordare i fatti così come sono successi in ordine cronologico, meno ancora i dettagli. Non ricordo i pensieri messi in fila, i ragionamenti che sono scaturiti insieme alle mie azioni subito dopo l’apertura di quella porta. Il tempo si è bloccato, o forse si è accelerato fuori ogni misura, certamente ha rotto il suo ordine naturale…
“Dio mio!” grido d’istinto. Mi sono portata la mano alla bocca, subito dopo, pentita di averla aperta anche solo per un secondo. “E se fossi stata contaminata?” nella mia testa si sono risvegliate voci fuori controllo. “Siamo state contaminate! Siamo state contaminate!”
Aprendo la porta un odore agro e fetido mi ha raggiunto come un cazzotto nello stomaco. Un odore che non trova parole per essere descritto, illegibile dal nostro cervello, perché nuovo e disorientante. Io e Lucia ci siamo guardate, la bocca e il naso coperti dalla mano e gli occhi sbarrati dallo sgomento.
Nella stanza, non c’è nessun oggetto che stia al suo posto: noccioli di mango tirati a terra, bottiglie di birra piene di liquido, fazzoletti sporchi ovunque, calzoni lanciati alla rinfusa sulla sedia, cioccolato smozzicato e bustine di zucchero vuote sul pavimento. Coperta, lenzuola, materasso e le stesse mattonelle di finto legno sono ricoperti di striature marroncine e verdi. Un secchio della grandezza di quelli che si tengono in casa o nel giardino per contenere attrezzi da lavoro, arnesi vari, concentra tutta la nostra attenzione. Mosche vi svolazzano sopra con volteggi disordinati. Pieno di liquido verdastro e marroncino, ha una sorta di crosta rigida che gli fa da coperchio.
Lucia fa uno scatto fuori dalla stanza, afferrandomi il braccio. Chiude la porta dietro di noi.
“Dimmi che non è vero!” Lucia è sull’orlo di una crisi isterica. Io mi sento ubriaca, come scaraventata dentro un incubo da cui non so come uscirne. In cucina l’odore nauseabondo si fa meno penetrante, ma è già stato assorbito dalle pareti e dai nostri cervelli, come un marchio indelebile.
“Come facciamo?” le chiedo io, subito dopo un colpo di tosse simile a un conato di vomito.
Lucia afferra dall’attaccapanni una sciarpa e me la porge. Io guardo con poca convizione alla sua l’espressione di un cagnolino che teme di essere abbandonato dal padrone. Mi metto la sciarpa intorno al viso, mentre lei afferra uno strofinaccio da sotto il lavandino e se lo avvolge attorno alla bocca e naso.
Siamo di nuovo dentro. L’odore ci stritola. Incubato nel nostro cervello e sotto la nostra pelle. Non importa che il naso sia ben protetto. Siamo già state contaminate. Lucia afferra il secchio da dei manici di plastica. Noto che anche questi sono ricoperti di un liquido secco che ha formato delle piccole stalattiti verdastre. Lucia non se ne cura. “Corri, ti prego.” Sento la sua voce fioca che a fatica passa attraverso lo strofinaccio.
“Inizio a correre verso il bagno, e sento i passi di Lucia alle mie calcagne. Entro nel bagno e mi avvicino al water, che è alla fine di un piccolo passaggio tra il muro e la vasca. Non c’è spazio per questa operazione, mi dico. Entro con i piedi nella vasca, e da lì tengo la tavoletta sollevata. Lucia è davanti a me, il secchio sorretto dalle sue piccole mani tremolanti. Il contenuto acquoso ondeggia, mentre la parte superiore sembra un iceberg verdastro che resta rigido come un coperchio troppo piccolo su una pentola con l’acqua fino all’orlo che bolle.
Lucia inclina il secchio verso il centro della tazza.
“Piano, piano!” grido io, e mentre lo faccio, la sciarpa mi scivola sotto il mento. Una vampata pestifera mi risale su per le narici. Lucia rovescia tutto il contenuto nella toilette. Io scarico presa dal panico. L’acqua della tazza sale, sale, sale sempre più in alto.
“Ah!” urla Lucia. Lo strofinaccio che le copriva il volto cade a terra, assorbendo all’istante il liquido marrone che si allarga a macchia d’olio sul pavimento del bagno.
Come una bottiglia di champagne che si stappa, non appena precipita nella tazza la zolla compatta in superficie, gas fetidi evaporano dal secchio, facendo esplodere l’odore di viscere e intestino malato fino alla massima potenza. Nello stesso momento il liquido verdastro avanza come un’ invasione di nemici in campo di guerra, mentre Lucia indietreggia come di fronte alla visione della morte nelle sue peggiori rappresentazioni.
“Aiuto! Sono in trappola!” grido io. Sono nella vasca, completamente posseduta dai gas miciadiali esalati dal rovesciamento del secchio. “Calma, calma…” dico rivolgendomi più a me stessa che a Lucia. L’odore come presenza fisica mi avvolge. Salto fuori dalla vasca e con lo splash delle mie scarpe sul quel liquido verdastro, sono fuori dal bagno.
Cosa succeda dopo, non ricordo. Solo frammenti. Vedo me aprire tutte le finestre, asciugare con uno scopettone il liquido invasivo sul pavimento, tirare candeggina, buttare camicie da uomo, scarpe, mutande, ecc, in grandi buste nere. Ricordo Lucia ed io trascinare fuori casa un materasso, le basi di un letto, un armadietto… tutto gettato fuori nella parte di cortile dove i condomini buttano la loro spazzatura. Mi vedo esausta. Deperita. Lucia smunta, con le sue mani bianche ricoperte di chiazze marroncine. Ricordo il virus divorarmi stomaco e cervello. Ricordo il liquido avvolgere la casa, e noi stesse, in un abbraccio di morte. E’ nelle nostre orecchie, bocca e esce dai pori della pelle. Il confine tra allucinazione e realtà è stato boicottato in pochi minuti. Le nostre anime sono infestate. Non ho neppure un briciolo di ragione residua per domandarmi: perché?
So solo che la Sua presenza sarebbe stata lì ore e giorni, indistruttibile. Nonostante le finestre aperte per ventilare la casa, i deodoranti spruzzati, le decine di lavatrici fatte per lavare e rilavare i panni sporchi. Un uomo disperato che ha già riunciato a vivere, arrabbiato col mondo, che durante la sua degenerazione vorrebbe dimostrare a Lucia, a me e al mondo intero che è stato vivo. Un uomo disperato che nella sua autodistruzione vorrebbe portare tutto via con sé: Lucia, la sua casa, ed anche me.