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Non aprite quella porta! – Storia di vita newyorkese. (I parte)

La seguente storia è stata ispirata da fatti realmente accaduti. Non è consigliata la lettura ai deboli di stomaco, ai suscettibili di intestino, ai lettori dall’immaginazione selvaggia capaci di trasformare le parole scritte in immagini vive e olfattive.

E’un ordinario venerdì pomeriggio, e sono a casa davanti al mio computer a cercare di scrivere il primo episodio di Carribean Diary. Nel mio racconto, il protagonista è un giovane italiano catapultato da una “novia” newyorkese passionale e instabile emotivamente, in un viaggio reale ed  allo stesso tempo onirico nella Repubblica Dominicana.

Squilla il mio cellulare, dall’altra parte la voce di Lucia, la mia amica italosvedese che mi risponde con un tono tremolante. “Ho bisogno del tuo aiuto, Franci. Non posso farcela da sola, ho paura.” Conosco Lucia da un paio di anni, e nel nostro circolo di amici italiani è famosa per il suo essere drammatica e impulsiva. Fa di ogni piccolo problema una montagna insormontabile; ha sempre da ridire su tutti, ma allo stesso tempo ha un grande cuore, sempre disponibile ad aiutare gli amici e anche i conoscenti in difficoltà.

“Lucia, tutto bene?” le domando, tenendo un orecchio poggiato sul telefono, ma con lo sguardo rivolto allo schermo e una mano sulla tastiera. Dentro di me, mi sono detta: non oggi, Lucia, please. Oggi non ho tempo da perdere. Dopo secoli, finalmente le muse della narrazione sono venute a trovarmi, non ci sono per nessuno. Passo e chiudo. Ma per cortesia e buona educazione, non le dico nulla.

“Ho paura ad aprire la porta del mio coinquilino. Potresti accompagnarmi, per favore, Franci?” mi chiede supplicante.

“Che strana richiesta è questa? Dove è lui? E perché non ti risponde?” le domando con distrazione.

“E’ scomparso da una settimana… c’è qualcosa di strano… di inquietante. E dalla sua stanza proviene un odore insopportabile…”
Salvo il mio file sul desktop: “Diariocaraibi_da_corregere.doc”
“Dove sei?”
“Sotto casa tua.” Mi risponde Lucia con decisione.
“Ah, suppongo che questa tua “mission” vada messa in pratica subito, non è così?”
“Non posso aspettare, Franci.” Risponde sollevata dalla mia disponibilità. “Te ne sono grata.”
Non ho neppure accettato di aiutarla ufficialmente, che già mi sto infilando le scarpe. “Arrivo, dammi due minuti.”

Lucia vive ad un blocco da casa mia, una “strada” come dicono qui a New York. Devo attraversare la Broadway e scendere la collina direzione del fiume, su Riverside Avenue. Per la nostra vicinanza geografica, le nostre quotidianità si sono intrecciate molto negli ultimi mesi. Lei è una cuoca bravissima, amante soprattutto dei piatti tipici romani, come Carbonara, Amatriciana, Cacio e Pepe.
“Mangiamo insieme stasera?” Le chiedo spesso, all’ultimo minuto.
“Hai cipolla e parmigiano?” mi chiede lei.
“Lucia, fammi un favore. Passa per il supermercato…” le rispondo io, lanciando uno sguardo veloce al contenuto del mio frigorifero, perennemente vuoto.
Di solito, Lucia arriva una ventina di minuti dopo, tenendo la busta del supermercato con una mano, e una bottiglia di vino rosso nell’altra.

Scendo le scale, e trovo Lucia all’entrata del mio edificio, ha la faccia stanca come quella di chi non dorme da giorni.
“Spiegami meglio, come è possibile che il tuo coinquilino sia scomparso nel nulla?” Iniziamo a camminare verso casa di Lucia.
“E’ un mistero, Franci. Da una settimana che provo a contattarlo. Non ha mai risposto a nessuna delle mie chiamate. Due giorni fa mi ha mandato un messaggio. I’m at the hospital. Unico testo ricevuto da lui in tutto questo tempo. Quel furbo deve ancora pagarmi l’affitto della settimana passata…”
“Mmm” commento io, moderando la mia curiosità con un tono di preoccupazione. “Qualcosa ci puzza qui…”
“Puoi dirlo, Franci. Ci puzza, e molto.”
“Ma il tuo coinquilino non è per caso quello che ti rubava cibo dal frigorifero, lo zucchero dalla zuccheriera, e che diceva di lavorare come portiere notturno, ma in realtà sentivi fino all’alba il ticchettio dell’interruttore della luce on e off, on e off?”
“Esatto,” annuisce Lucia. “Quel cliente che l’agenzia mi ha mandato due settimane fa, che presumibilmente lavora di notte ma non esce mai di casa, che si lamenta di essere diabetico, e poi si finisce il mio zucchero… e anche il mio cioccolato! Non ci vedo chiaro… e poi… la sua stanza emana un odore diabolico…”
“Diabolico?”
“Sì…” afferma, abbassando lo sguardo. “Ho dovuto dormire sul sofà la notte scorsa.”
“Che tipo di odore? Fuma erba o tabacco?”
“Magari… peggio. Molto peggio…”
“A cosa ti riferisci?”
“Io credo che lui faccia i bisogni in stanza.”
“Cosa!?!” affermo io con incredulità.
“Ho paura ad aprire quella porta…”
“Questa situazione mi ricorda un film dell’orrore che vidi molti anni fa.”
“Franci,” Lucia si ferma, si volta verso di me. I suoi occhi spalancati, fissano i miei per alcuni secondi. “Non è un film, putroppo. E’ tutto reale.”
“Ma dai, Lucia,” sdrammatizzo io, “starai esagerando… Perchè ‘sto tipo dovrebbe cagare in stanza quando il bagno è a due passi?”
“Per vendicarsi.”
“Di cosa?”
“Una settimana fa gli ho detto di andarsene. Di pagarmi l’affitto che mi deve, e sloggiare.”
“Non ti offendere, ma secondo me stai diventando paranoica. Non credo che una persona, sebbene sia infastidita per essere stata cacciata da un appartamento… cosa che succede sempre qui a New York… trovi un modo così bizzarro e disgustoso per vendicarsi. Vedrai che l’odoraccio che senti per la casa deriva da una finestra rimasta chiusa per troppo tempo…”
“Come dici tu, Franci.” Risponde Lucia, con un tono seccato.

Arriviamo di fronte al suo edificio. Il volto di Lucia si fa pallido, quando con la mano tremante apre il portone. Iniziamo a camminare verso la porta di casa di Lucia, un bilocale al piano terra. Lei vive nella stanza più grande, e affitta l’altra per aiutarsi a pagare l’affitto. I nostri passi rimbombano nell’androne stranamente deserto per essere un venerdì sera. Quando finalmente ci troviamo davanti alla porta di casa, Lucia infila la chiave, la gira in una doppia mandata, e poi resta impalata per alcuni secondi.
“Grazie.” Si rivolge a me con gli occhi umidi, come se stesse per piangere.
“Figurati, Lucia.” Cerco di mantenere un tono calmo, nascondendo un pizzico d’ansia che ora mi stringe lo stomaco in una morsa.
Lucia apre piano piano la porta. “Lo senti?”
“Cosa?”
“L’odore… si sente fin qui.”
Inalo profondamente, e una puntina di agrodolce mi percorre le narici. “Sento qualcosa… ma niente di che…”
La casa è in penombra, dalla finestra della sala in fondo al corridoio entra la luce del lampione che dà sul cortile tra i palazzi.
“Perché non accendiamo la luce?” faccio notare a Lucia.
“Voglio prima assicurarmi che lui non sia in casa…”
Entriamo nella cucina, situata poco prima della sala. Lucia mi guarda, inghiottisce la saliva come se fosse un boccone amaro, poi bussa alla porta con un gesto deciso.
Nessuno risponde.
“Apro?” mi guarda?
“Apri.”

La maniglia si muove di scatto verso il basso, accompagnata dalla spinta brusca della mano di Lucia. Poi, con un calcio, la mia amica spalanca la porta che dà su una stanza piena di ombre di cui da lontano non si distingue l’interno. Lucia muove un passo verso quel buco nero, io faccio lo stesso, determinata a svelare finalmente il mistero.

Tutto quello che segue è un racconto frammentato. Ho perso la facoltà cognitiva di ricordare i fatti così come sono successi in ordine cronologico, meno ancora i dettagli. Non ricordo i pensieri messi in fila, i ragionamenti che sono scaturiti insieme alle mie azioni subito dopo l’apertura di quella porta. Il tempo si è bloccato, o forse si è accelerato fuori ogni misura, certamente ha rotto il suo ordine naturale.

Aprendo la porta del coinquilino, siamo state catapultate in un mondo altro, dove l’umano, forzato fino al suo estremo, sfocia nel disumano, dove l’incredulità trabocca nella follia. Dove non esiste la ragione, ma solo l’impulso sfrenato. Dove l’unica cosa che conta è correre correre correre il più lontano possibile dal vortice dell’annientamento di tutto ciò che fino a quel momento era sembrato ai nostri occhi ragionevolezza.

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