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La nostra avventura nel West durante lo “shutdown” di Trump
Part 2

“Nothing behind me, everything ahead of me, as is ever so on the road.” 
― Jack Kerouac, On the road

Il nome dello stato Utah sembra che derivi dagli Indiani Uta, la gente delle montagne. Le distanze in Utah sono sterminate, e me le sento tutte addosso, miglia dopo miglia.

“Attraversiamo banchi di nebbia dove scompariamo con tutta la vettura mentre entriamo in una dimensione magica, oltre la quale il cielo è di nuovo cristallino e i colori dei canyons sgargianti. Ci alterniamo alla guida, io e Sophie, in quanto Mario, da vero newyorkese cresciuto a Manhattan non si è mai preso la briga di passare l’esame per la patente. Nelle lunghe ore al volante, il paesaggio è tagliato da strade che corrono dritte senza una fine tangibile, almeno a noi così sembra e il deserto è una presenza perseverante oltre i finestrini. Capisco solo ora perchè in alcune lingue, come l’arabo, vi siano tante parole diverse per definire differenti tipi di deserto. A volte è tanto arido che si intravedono i letti dei fiumiciattoli ormai disseccati. A volte è punteggiato di alberelli o piante grasse, a volte roccioso con dune di pietra.

In Utah guidiamo per estenuanti distanze, scorgendo i primi piccoli centri abitati solo dopo ore e ore di strada. In una località minuscola dall’aspetto sonnolento, difficile da scorgere sulla mappa ed avvolta in una nebbia fitta, decidiamo di concederci una sosta bagno. Una scritta Visitor Center Open ci invita ad entrare in un edificio che ha l’aspetto di un vecchio casolare, tenuto bene, ma che sa di remoto nel tempo. Fuori, nel giardino, sostano dei carri che ricordano le carovane che usavano i primi pionieri quando viaggiavano con famiglie e intera comunità al seguito alla ricerca di nuove terre dove ricominciare una nuova vita. Mi ricorda uno di quei film Western che mio nonno era solito guardare nelle calde sere d’estate romane. Non ne seguivo la trama, ero seduta accanto a lui sul divano e ogni tanto alzavo lo sguardo agli spari di cowboys, e restavo ammaliata dai paesaggi desertici e sconfinati che sembravano voler straripare dallo schermo piatto.

Un uomo sulla cinquantina, vestito con abiti d’altri tempi e con sul volto un sorriso che sembra di carta, apre la porta del Visitor Center e ci fa segno di entrare. Una donna, avvolta in un vestito scuro, siede dietro il bancone, silenziosa ci osserva. Ha sul volto un accenno di sorriso, e quando mi giro verso di lei noto che ha un occhio strabico. Forse sarà stato l’ambiente troppo pulito, il pavimento brillante, le robuste scale in legno appena riverniciato che portano al piano di sopra, dove sono i bagni, ma non mi sento per niente a mio agio. E’ tutto troppo rifinito e lustro per essere localizzato nel nulla del deserto. Alle pareti di quello che poi capiamo essere un piccolo museo, vi sono appesi ritratti in bianco e nero di personaggi ottocenteschi: uomini pallidi e panciuti che ci guardano con aria aristocratica, signore con capelli raccolti a cipolla o coperti da copricapo nello stile dell’epoca, la maggior parte dall’espressione un po’ stizzita. Il museo è dedicato a degli europei che a quanto sembra passarono di lì secoli addietro alla ricerca di un cammino verso est. Fondarono una piccola comunità in uno dei luoghi più remoti e selvaggi del West. Uscita dal bagno la mia attenzione cade su un poster in bianco e nero. “Museum of the colonizers.” E’ raccontata la storia dei pionieri che con le loro carovane e famiglie al seguito fondarono questo villaggio secoli fa. Mi chiedo se il termine “colonizzatori” sia politically correct, o non avrebbero dovuto mascherarlo con il termine pionieri o avventurieri, che importa dell’ipocrisia, avrebbe avuto un sapore diverso, meno amaro. Almeno questa è gente sincera. Si sentono dei colonizzatori e se ne vantano attraverso questo piccolo museo sperduto nel nulla. Lo penso, ma questo non mi scrolla di dosso una certa inquietudine. Ce ne andiamo, ringraziamo. Ma nel mio viso, mi dice Mario, è stampato un certo essere a disagio.

Già siamo sulla strada di nuovo. Ripenso al nostro incontro. Al museo. Dimentico presto il nome di questo villaggio fatto di una manciata di edifici, qualche casa, una chiesa, e quel museo dei colonizzatori. Siamo nel cuore dello Utah, e anche della Navajo nation, il territorio dentro lo stato americano che appartiene anche alla popolazione nativa. Intravedo due indiani Navajo che caricano merce su un pick up, appena svoltiamo sulla statale alle spalle del piccolo museo. Tutto attorno, di nuovo il deserto, le strade lunghe che separano e uniscono allo stesso tempo minuscole cittadine attraverso distanze infinite. I due uomini sembrano dei lavoratori anche se non ho il tempo di mettere a fuoco le loro figure, in quanto la strada ha preso a scorrere in fretta e furia dai miei finestrini. Tutto era ordinato, nel museo, e fuori il paesaggio mi appare così immenso e vuoto di persone. Ma allo stesso tempo, lo spazio circostante tracima di rocce e silenzio. E ad ogni miglia che scorre mi sento più lontana, soprattutto da me stessa. Vorrei chiamare mia madre a Roma, chiederle di ricordarmi da dove vengo, ma non c’è segnale. Mi sembra di capire qualcosa di profondo di questa terra che poi fu chiamata America, molto tempo dopo. Qualcosa che tuttavia – ancora in viaggio – non posso articolare.

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