Quel misterioso bambino che piangeva al centro della strada.
Un bambino era al centro della strada, su un marciapiede che fa da spartitraffico tra l’arteria principale e una strada secondaria che vi si immette.
Piangeva tanto forte che mentre attraversavo distratta tra i miei pensieri, mi sono voltata verso di lui con la sensazione di star sognando. Non era quello certo il posto dove un bambino di non più di dieci anni poteva starsene da solo. Riverside Drive è una strada non molto trafficata, ma dove le macchine, proprio per questo motivo, hanno l’abitudine di spingere il piede a fondo sull’acceleratore. Io e una signora sulla settantina stavamo attraversando la strada, ed entrambe ci siamo voltate nella direzione del lamento. La signora si è avvicinata al piccolo, ed io l’ho seguita, seppure non conoscessi nessuno dei due. Lei era una di quelle donne dominicane che incontro spesso nel mio quartiere di West Harlem, di polso, dirette nel parlare, energiche, scherzose e tuttofare. Portava con sé un carretto, come se diretta verso una lavanderia.
Poco prima di essere state distratte dal bimbo al centro della strada, io e la signora dominicana camminavamo una dietro l’altra, vicine sconosciute che condividono le strisce pedonali. Non so per quale motivo mi ritrovai ad osservarle i polpacci mentre pensavo a quanto la donna avesse camminato nella sua lunga vita. Questi erano minuti e muscolosi, ed io ebbi quella sensazione fugace del tempo che passa e ci cambia, nell’apparenza molto più che nella nostra essenza. La vecchiaia, questo stato a cui molti di noi arrivano senza neppure accorgersi del salto dalla “giovinezza” alla “non-giovinezza.” Il pianto inconsolabile del bambino mi aveva poi riportato alla realtà. La signora dominicana si era rivolta al bambino in spagnolo.
“Dove sono i tuoi genitori?”
“Dove vivi?”
“Dove eri diretto?”
“Ti sei perso?”
A tutte le domande che la signora gli porgeva, il misterioso bambino rispondeva con un movimento della testa come per dire “no”, oppure, quando la signora minacciava di chiamare la polizia in caso continuasse con il suo mutismo, scoppiava in un pianto ancora più disperato. Ad un certo punto il bambino ha fatto uno scatto che ha gelato il sangue ad entrambe. Sembrava stesse gettandosi al centro della strada, come per fuggire dal nostro interrogatorio. La signora allora lo ha bloccato per un braccio, piazzandosi di fronte a lui come per impedirgli il passaggio.
“Le macchine ti uccideranno se vai lì” gli ha detto lei in tono intimidatorio.
“Ha dei soldi in mano” mi ha sussurrato la signora rompendo l’estraneità tra noi due, ed ho notato un dettaglio che mi era sfuggito: il bambino stringeva dei dollari nel pugno.
“Ti hanno picchiato?”
“Ti hanno insultato?”
“Ascolta, dimmi, dimmi cosa ti è successo, non ho tempo da perdere, muchacho!” La donna stava visibilmente spazientendosi.
“Signora, che facciamo? Non possiamo lasciarlo qui, nel mezzo della strada.” Le ho poi detto, senza nascondere una certa agitazione.
“Andiamo, muchacho, andiamo sul marciapiede!”
Niente da fare, il bambino strillava ancora più forte. Non si riusciva a spostarlo neppure di un centimetro. Voleva starsene lì, e non avrebbe mosso un ciglio, neppure sotto tortura.
Se siano passati solo dei minuti o qualche ora, non posso ricordarmelo. So solo che il tempo sembrava essersi fermato lì, al centro della carreggiata, su quello spartitraffico minuscolo che io, la signora dominicana e il misterioso bambino stavamo condividendo. Le nostre tre vite si stavano intrecciando senza che noi ce ne stessimo accorgendo. Poteva essere stato un giorno come un altro, che la routine avrebbe poi mescolato nei ricordi confusi del “passato”, senza che io avessi potuto avere potere nel rintracciarne nessuna memoria. Invece per noi tre il mondo si era bloccato, e il bambino ci aveva rappreso in questo spazio atemporale fuori dall’ordinario.
Ad un certo punto si è avvicinata una signora sulla quarantina. Con lo sguardo severo e preoccupato, si è diretta a passi veloci e decisi verso il bimbo.
“Conosce il bambino?” le ha chiesto la signora dominicana.
“Sì” ha risposto lei, senza neppure rivolgerci lo sguardo. Poi ha iniziato a parlare al bambino, con tono di rimprovero ma a voce talmente bassa che né io né la signora potevamo comprendere. Abbiamo allora capito che era arrivata l’ora di andarcene e lasciare soli il misterioso bambino e la signora appena arrivata che sembrava avere un rapporto molto stretto con il piccolo. Ci siamo dirette verso il marciapiede, camminando l’una accanto all’altra come due vecchie amiche che condividono uno spazio con familiare intimità. Poi ci siamo salutate, con un abbraccio, un sorriso che sapeva di un arrivederci. Lei non sapeva il mio nome, e neppure io il suo. Eravamo già lontane, quando mi sono voltata indietro. Il bambino non se ne stava più al centro della strada, e il tramonto era di colori vivaci che riempivano il cielo di New York quasi a farlo sembrare infinito.