Salvati dal McDonald a Roma (e “liberati” dagli Americani ancora una volta).
Un racconto romano, ambientato a Roma e tutto dedicato alla città eterna.
Alla fermata del tram 14 a Piazzale dei Cinquecento, nei pressi della Stazione Termini, c’era molta gente, tanto che a stento sono riuscito a ritagliarmi uno spazietto sul marciapiede.
Era una giornata afosa, una delle più afose – così continuava a ripetere il TG – degli ultimi 150 anni.
Non sono romano, ma visito spesso la città eterna, perché ho una cara amica che vive qui. Quel giorno, poi, era un’occasione speciale: la presentazione di un mio romanzo sui miei viaggi in Africa, in una libreria sulla Prenestina, altezza Serenissima. Per chi è un po’ pratico di Roma, sulla Serenissima siamo dentro il GRA, Grande Raccordo Anulare. La strada dalla Stazione Termini alla libreria non è tanta ma il tempo di percorrenza di quei 7 chilometri può variare notevolmente a seconda del mezzo di trasporto utilizzato. In macchina, non più di venti minuti. A piedi, un’oretta, e dai 30 ai 45 minuti a seconda dello specifico mezzo di trasporto: autobus, tram, metropolitana, o combinazione di alcuni.
Mi muovo con una carrozzina elettrica che pesa 50kg, e con me ne facciamo 100. Non è pieghevole né facilmente sollevabile, ma questi ostacoli non mi hanno mai limitato. Sono pronto all’imprevisto, cerco di stare all’erta e reattivo nel risolvere i problemi.
Mi rivolgo ad un impiegato dei trasporti pubblici romani, azienda di cui non rivelo l’identità perché non mi piace far nomi. L’impiegato mi riferisce che per me l’opzione migliore è il TRAM, modello nuovo. Ho scoperto che a Roma ci sono tre modelli di tram. Uno risalente agli anni ’60, presente in molti film di Paolo Villaggio, in cui il nostro amato ing. Fantozzi era alle prese con la mobilità romana. Questo tram old-fashion, è provvisto di tre gradoni all’entrata-uscita che non potrei mai salire, neppure con l’aiuto di un Hulk romano. C’è poi un modello intermedio, senza gradoni ma con la stessa forma del precedente. E uno “nuovo” di zecca, dalla forma più aerodinamica, più spazioso e a detta dell’impiegato della ditta dei trasporti romani, previsto di pedana allungabile che permette l’accesso alle carrozzine.
Per chi non fosse esperto di tram romani, questi fermano all’altezza del marciapiede (nella maggior parte dei casi), ma tra il marciapiede e il tram vi è una voragine (un buco largo una trentina di centimetri e profondo come l’altezza del marciapiede) che rende per me e la mia carrozzina elettrica l’impresa di accesso nel tram impossibile, senza il soccorso di qualche volontario che ci sollevi di peso.
Il mio obiettivo: salire sul tram ed arrivare alla libreria sulla Serenissima.
TRAM N.14, modello nuovo.
Arriva il tram, brulicante di gente. In tanti scendono e altrettanta gente sale su. Mi sono rivolto all’autista, il quale mi ha guardato e con voce decisa mi ha detto:
“Questo tram non è abilitato per i disabili, le consiglio di prendere l’autobus”
Io: “Mi è stato detto da un impiegato della sua stessa ditta di trasporti che l’ultimo modello di tram aveva la pedana d’accesso per disabili…”
Autista del tram (modello nuovo): “Ci dispiace, prenda l’autobus, lì vi sono le pedane.”
Di ritorno a Piazzale dei Cinquecento, l’impiegato della ditta romana dei trasporti, continuava a ribadire che alcuni tram sono accessibili per i disabili. Ha così controllato sul suo telefono. “In 4 minuti ne arriva un altro, vada. Questo è di sicuro accessibile per i disabili.”
Sono tornato alla fermata del tram, stavolta meno affollata di qualche minuto fa. Non appena ho visto affacciarsi il tram, dalla curva che lo fa immettere a Piazzale dei Cinquecento, mi sono avvicinato laddove prevedevo si fermasse il mezzo, all’altezza dell’autista. Volevo parlare direttamente con lui, senza perdere tempo.
TRAM N.14, modello nuovo.
Io: “Salve, mi è stato detto che questo tram è previsto di pedana per accesso dei disabili.”
Autista: “No, nessun tram è accessibile per disabili. Però non si preoccupi…” L’autista del tram (modello nuovo) è sceso, un omone sulla cinquantina, alto e muscoloso, con i capelli brizzolati mi si è avvicinato e mi ha sollevato di peso. “Io alzavo fino a 100 kg”, mi ha confidato ridendo, “e poi non si preoccupi, l’ho già avuta l’ernia del disco.”
Ho ringraziato l’autista e mi sono posizionato nella sezione disabili all’interno del tram, una sezione piuttosto spaziosa. Pensavo alla contraddizione di avere all’interno del mezzo una sezione così ben organizzata quando poi l’accessibilità all’entrata è resa impossibile per mancanza di pedana. Non vi è altro modo di entrare in un tram, per me, disabili e mamme alle prese con carrozzine che la buona volontà di volontari disposti a sollevare il passeggero e la sua carrozzina. Bah, ho pensato tra me e me, “controsensi romani.”
L’operazione di discesa dal tram è stata resa possibile di nuovo grazie al volenteroso e forzuto autista. E così sono finalmente arrivato a destinazione, ho abbracciato la mia amica che mi ha accolto con entusiasmo, ed ho avuto la possibilità di dedicarmi con serenità alla presentazione del mio libro sui miei viaggi in Africa, un vero successo che ha appassionato i presenti.
Io e la mia amica, che per comodità chiamerò Gina, alla fine della presentazione, dopo essere rimasti a chiacchierare un bel po’ con amici e curiosi che avevano partecipato all’evento, ci siamo diretti di nuovo verso la Stazione Termini. Il mio treno per tornarmene sul litorale Ligure era alle 5 di mattina, e il suo per l’aeroporto per recarsi a Strasburgo, dove lavora, era alle 5.30. Avevamo messo già in conto che avremmo trascorso alcune ore notturne nella Stazione Termini, ed avevamo pianificato di starcene in qualche ristorantino presso Piazzale dei Cinquecento, o le limitrofe Via Marsala o Via Giolitti, e poi andare in stazione, ed aspettare i nostri rispettivi treni in qualche sala d’attesa, nel migliore dei casi, quella nei pressi dell’ufficio che supporta la viabilità dei disabili.
La realtà si è dimostrata sorprendentemente differente dai nostri piani.
Itram di ritorno dalla Serenissima dopo le 11 di sera, erano in maggior parte quelli old-fashion dell’ing. Fantozzi, con tre gradoni insormontabili. Forse di notte, preferiscono usare questi, per non usurare quelli “nuovi” di zecca. Ebbene abbiamo aspettato più di un’ora, fino a quando un tram d’epoca intermedia, senza gradoni ma con la stessa forma squadrata dei tram più antichi, si è avvicinato. L’autista in questo caso se n’è lavato le mani del fatto che noi dovessimo imbarcarci sul tram, ma con l’aiuto di passeggeri che sono corsi in aiuto, sono salito a bordo.
La Stazione Termini di notte è un luogo particolare, suggestivo e anche inquietante. I ristoranti limitrofi chiudono tutti tra mezzanotte e l’una, con qualche eccezione per alcuni che tirano fino alle 2 o le 3 di mattina. I turisti, lavoratori, pendolari e frequentatori diurni della stazione, iniziano a scomparire quando la notte scende sul piazzale della Stazione, mentre nuovi personaggi si fanno avanti. Hanno sguardi vispi, scrutatori, alcuni sembrano girare come gangsters per Piazzale Cinquecento, con quel passo di chi si muove nel proprio “territorio”. Si salutano tra loro, facendosi toccare i pugni. Tra loro, italiani, magrebini, est europei. Aumentano gli uomini seduti fuori dai pochi bar aperti, sono spesso dei solitari in compagnia della propria birra. Poi c’è la polizia ferroviaria, che posteggia in stazione e di tanto in tanto va nei bar di Via Marsala a predersi un caffè, o fare uno spuntino. Ecco, a loro mi sono rivolto.
“Devo andare al bagno, ma mi è stato detto che i bagni della stazione hanno chiuso a mezzanotte. Non si può fare niente?”
“I bagni chiudono a mezzanotte e riaprono alle sei, mi spiace.” Con tono indifferente, guardandomi senza alcuna espressione dritto negli occhi.
“A che ora chiude la stazione?”
“Tra poco, all’una e venti e riapre alle quattro e mezzo”
“Io e la mia amica Gina vorremmo restare dentro la stazione per qualche ora, nella sala d’attesa, fino a quando riapre…”
“Non è possibile. La stazione chiude all’una e venti e nessuno può restarvi dentro.”
“Neppure seduti su delle panchine? Qui non sappiamo dove andare. Tutti i bar stanno chiudendo e quelli che sono ancora aperti hanno gradini all’entrata o per il bagno.”
“Mi dispiace. La stazione chiude, tutti devono uscire, non vi è copertura assicurativa durante la notte. Vada a una pensione per qualche ora.”
Il poliziotto ferroviario se n’è andato via. Ed io sono rimasto con la mia urgenza di andare al bagno. “Come diamine è possibile che ci sono tutte scale in questi dannati bar di Termini? Ce ne fosse uno con bagno per disabili!”
La fame anche si faceva sentire, ed allora con Gina abbiamo deciso di fermarci a mangiare un pezzo di pizza o un tramezzino nei pressi di uno di questi bar di Via Marsala, e unirci per il tempo della cena con i tipi loschi che lo frequentavano.
“Mi dispiace stiamo chiudendo!” ci ha detto il proprietario senza mezzi termini.
“Ma l’altro ragazzo ci ha detto che chiudete alle due, ed è ancora l’una e mezza.”
“Mi dispiace.”
Gina a questo punto ha tirato fuori un’ira inaspettata.
“Se ne vada a quel paese, lei e il suo squallido bar. Ci sono ancora della pizza e tramezzini esposti. Che le costa farci mangiare? Ha deciso di chiudere in questo preciso istante. Se ne vada a quel paese!”
Gina, calmati, per l’amor di Dio. Non è il momento di arrabbiarsi, soprattutto con questo tipo, che ha poco di raccomandabile, e che ha dalla sua parte una ciurma di ubriaconi. Lascialo stare, Gina, andiamo alla ricerca di qualcosa di meglio. Non abbassiamoci al suo livello, è energia sprecata.
Gina era stremata, dopo tanto camminare nelle vie limitrofe alla stazione Termini, trascinando il suo valigione rosa. I pochi bar aperti continuavano a dirci che non avevano bagni accessibili, e ci guardavano, anzi, come fossimo degli extraterrestri. La mia amica era infastidita dall’indifferenza della gente, dal fare sgarbato e arrogante di tanti commercianti.
“Andate dai cinesi, loro sono sempre aperti.” Ci ha detto qualcuno.
Ecco, i cinesi invece si sono rivelati i più sgarbati. Una signora sulla quarantina, per quanto sia difficile dare un’età a un volto di donna asiatico, ci guardava con diffidenza, mentre stava con evidenza facendo le pulizie per chiudere il locale.
Gina le ha chiesto se cortesemente poteva darci la possibilità di usare un bagno, assicurandole che in cambio avremmo comprato qualche cosa dal suo bar.
“No bagno, no bagno. Chiuso.” Ci ha dato le spalle in una forma così irriverente che ho pensato che la frustrazione di questo individuo doveva essere stato a livelli stratosferici. Quasi ne ho provato pena.
“Gina, Gina, non alterarti. Continuiamo a cercare.”
La speranza non sempre è l’ultima a morire, soprattutto quando messa a dura prova. Gina era sempre più frustrata ed inveiva contro i commercianti di Termini; io, da parte mia, avevo bisogno di un bagno. Quanto prima.
Ed ecco che la soluzione è arrivata. Miracolosa nel suo essere inaspettata. Una luce grande e luminosa, dal lato di Via Giolitti, risplendeva davanti ai nostri occhi. Era una luce gialla, ed avvicinandoci ne abbiamo finalmente riconosciuto le insegne: McDonald. All’entrata c’era un piccolo gradino. Alcuni giovani di origine magrebina, seduti sui loro motorini fuori al Mac, si sono offerti di sollevare me e la carrozzina, e siamo finalmente entrati.
Incredibile, ma vero: il Mc della Stazione Termini, aperto 24 ore su 24, ha un bagno comodissimo per i disabili. E’ pulito, il personale è gentile e affabile e il cibo da fast food americano si è “italianizzato” mostrando una parvenza più sana e mediterranea. Io mi sono preso un panino con petto di pollo, e nel menù faceva parte anche grissini e un’insalata da condire con una bottiglietta di olio d’oliva extra vergine “Made in Italy”. C’era poi la sezione espresso-cappuccino-cornetto, dove io e Gina abbiamo fatto anche colazione un paio di ore dopo.
Abbiamo fatto anche amicizia con due ragazze slovacche in viaggio per l’Italia, nostre vicine di tavolo. Loro, nelle prime ore della mattina, si erano avventurate fuori dal McDonald immergendosi nell’oscurita delle stradine della Stazione, ma erano rientrate subito dopo.
“La stazione Termini quando il buio ricopre i binari, le banchine e i suoi misteriosi abitanti, si trasforma in un luogo arcano e imperscrutabile. Gli sguardi indiscreti dei personaggi che la abitano condensano Piazzale dei Cinquecento. Si ha l’impressione, che sotto i veli complici della notte, nella Stazione romana tutto possa succedere. Un senso di insicurezza invade il viaggiatore.”
“Gina, il McDonald ci ha salvato!” Ho finalmente detto alla mia amica, ormai rilassata mentre sorseggia il suo cappuccino Italian-style.
“Sì, di nuovo gli Americani, come durante la Seconda Guerra Mondiale!” Mi ha risposto lei ridendo.
Io ho afferrato il mio espresso, firmato McDonald, e alzandolo come fosse un calice, le ho detto:
“Brindiamo, cara amica, ai Liberatori, al McDonald, alla nostra bella e complicata Roma e a questa Stazione Termini, rifugio di diseredati e viaggiatori audaci!”
“Cin, cin!”