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La nostra avventura nel West durante lo “shutdown” di Trump
Part 4

“Nothing behind me, everything ahead of me, as is ever so on the road.” 
― Jack Kerouac, On the road

Il parco Arches contiene oltre 2500 archi formatosi dal fluire paziente dell’acqua nel corso di milioni di anni. Come tante finestre che si aprono sul cielo, gli archi ci circondano sin dal nostro arrivo nel parco regalandoci scorci mozzafiato.

Prima di entrare, ci siamo fermati al Visitor Center come di routine, per chiedere se il parco fosse aperto. A causa dello shutdown non abbiamo trovato nessuna informazione certa, né online, visto che nessun aggiornamento è apparso nel sito ufficiale dei parchi nazionali da quando è cominciato lo shutdown, né telefonicamente, infatti nessuno risponde ai numeri del “customer service.” Una signora sulla cinquantina che ci ha ricevuto al Visitor Center, capelli corti brizzolati e un sorriso rassicurante, ci ha spiegato che il parco ha riaperto nonostante i dipendenti non vengano pagati per via della crisi in corso.

“Le strade principali sono libere dalla neve che è caduta copiosa nei giorni passati… la mia associazione insieme ad altre, si sta occupando di tenere in buone condizioni il parco. Quindi sì, il parco degli archi è aperto! Welcome to the Arches!”

Commossi dalla generosità della donna, l’abbiamo ringraziata e poi siamo usciti, un po’ a malincuore, dal calduccio del centro informazioni nell’aria frizzante dello Utah.

Dopo aver percorso poche miglia in macchina, eccoci arrivati all’entrata. Siamo passati al lato di un gabbiotto privo di impiegati. “Non c’è nessuno, e possiamo passare senza problemi, come diceva la signora…” Una scritta sullo sportello del gabbiotto ci ha avvertito che a causa dello shutdown non sono assicurati servizi. E’ un modo per dire: il parco è aperto, ma è a vostro rischio e pericolo. Non c’è personale, e anche i bagni potrebbero essere sporchi.

Ora, mentre ci inerpichiamo su per una salita tutta curve, drammaticamente scoscesa per via di formazioni rocciose dalle pareti a strapiombo che sembrano tagliate con il coltello come una torta al caramello, ho l’impressione che la nostra macchina quasi scompaia nell’abbraccio serrato delle rocce. Ma ecco che, all’improvviso, il paesaggio si allarga e iniziamo a intravedere i primi archi.

“La natura ha creato tutto ciò nel corso di migliaia… che dico milioni di anni” commento con incredulità. Non abbiamo la connessione internet, e non l’avremo neppure nei prossimi parchi, ma la cartina dataci dalla simpatica signora del centro informazioni ci torna utile.

“Quella si chiama Balanced Rock.” Sophie indica una formazione rocciosa allungata, esile nella sua maestosità, con in alto, quasi come se fosse delicatamente appoggiata, una roccia sferica ciclopica, che sembra reggersi in un equilibrio precario, come una testa troppo grande su di un corpo filiforme.

“Sembra quasi impossibile che non cada…” commento io.

“Non cadrà, vedrai”, risponde Mario con un sorriso quasi beffardo. “E’ in questa posizione da milioni di anni.”

 L’arco più famoso di tutti si chiama “Delicate Arch” ed è piuttosto lontano da raggiungere. Ci si può avvicinare con la macchina fino ad un certo punto, dopo di che bisogna percorrere a piedi un sentiero di circa due ore. Non possiamo permettercelo, per due motivi. I nostri stivaletti e scarpe da tennis non sono adatti per camminare tra rocce e neve. Secondo, il sole sta scendendo lentamente dietro gli archi e tra poche ore la notte avvolgerà completamente il parco nel buio più pesto che probabilmente non abbiamo mai visto nella nostra vita intera.  Decidiamo di raggiungere con l’automobile un punto strategico da dove osservare da lontano il famoso arco. C’è solo una camminata di circa 15 minuti da fare su per una piccola collina.

Una volta raggiunto il punto strategico, il Delicate Arch si innalza grandioso e allo stesso tempo fragile davanti ai nostri occhi. Appare come un paio di gambe lunghe e muscolose che indossano un paio di jeans a zampa d’elefante. Come fossero degli arti in procinto di camminare, danno un’idea di movimento. Capisco perchè qualcuno ha deciso di chiamarlo arco delicato. Queste gambe nerborute sembrano allo stesso tempo degli steli pronti a spezzarsi da un momento all’altro. L’apertura è immensa, e mi viene da pensare che sia un miracolo che le sue rocce siano rimaste in questa posizione dalla notte dei tempi. Il Delicate Arch si contorce in una tensione muscolare che sfida i minacciosi e instancabili nemici attorno: la neve, il vento, l’acqua che scorre e corrode, crea archi e poi li distrugge. E il nemico più invincibile: il tempo. Perché, penso con tristezza, un giorno anche questo arco delicato non sarà più.

Mentre ci allontaniamo dal parco degli archi, Sophie è al volante ed io ne approfitto per assorbire il paesaggio che scorre al di là del mio finestrino: montagne, canyons, deserti che raccontano le storie che il viaggiatore è in grado di inventare, leggendole nelle rocce attraverso un’innata immaginazione che riconosce oggetti e animali conosciuti in superfici amorfe…

Dopo poche miglia dall’uscita del The Arches Park, le strade diventano dritte, quasi tracciate con un righello, ma con dossi che le rendono sinuose come il corpo liscio di un serpente, la cui testa scompare dietro l’orizzonte, sempre più lontano da noi man mano che lo inseguiamo, e che non si fa mai prendere. Le Baby Rocks, così chiamate perché sono numerose e di piccola dimensione rispetto alle altre circostanti, hanno l’aria di bambine di mille anni di età. Ci salutano in due occasioni: la prima volta quando guidavamo in direzione Utah, e ci risalutano ora che, tornando indietro, ci dirigiamo verso il Colorado. Non avrei mai pensato di aver potuto riconoscere delle rocce, eppure sono loro, senza dubbio, sono le rocce bambine.

“Bye bye, Baby Rocks” alzo la mano verso di loro. “Scusate per aver dubitato della vostra anima.”

Sono già dietro di noi. Rispondono al mio saluto, semplicemente con la loro presenza.

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