La nostra avventura nel West durante lo “shutdown” di Trump
Part 6
“Nothing behind me, everything ahead of me, as is ever so on the road.”
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“Il Presidente ci sta usando come degli ostaggi, o come merce di scambio.” Irrompe Mario, con un sorriso sarcastico non appena la pagina del New York Times si carica sul mio cellulare per intero, e riusciamo a leggerne il titolo. Si tratta dell’annuncio-ultimatum di Trump per porre fine alla crisi di governo, e terminare lo shutdown in corso. TRUMP OFFERS TEMPORARY PROTECTION FOR ‘DREAMERS’ IN EXCHANGE FOR WALL FUNDING (New York Times, 19 gennaio 2019).
Mentre viaggiamo restiamo appesi alle scarse notizie riguardanti la crisi di governo di queste settimane. Per la maggior parte del tempo non abbiamo connessione, siamo tagliati fuori dal mondo. Questo ci fa riflettere su quanto siamo ormai assuefatti a vivere all’interno di reti digitali e distanze accorciate. Abbiamo attraversato il deserto per un tempo che ci è sembrato infinito senza alcun accesso ad internet, ascoltando e riascoltando su Spotify le poche canzoni che avevamo già scaricato quando eravamo in città. A poco a poco, ci siamo abituati alla disconnessione. La frenesia di stare al passo con le ultime notizie, di controllare le notifiche Facebook, i messaggi WhatsApp, le email, è scemata a poco a poco. Abbiamo familiarizzato con la scritta “off-line” della pagina web che non riesce a caricarsi.
È un po’ come disintossicarsi da una dipendenza, all’inizio ci siamo sentiti irrequieti, insicuri, bisognosi di essere di nuovo parte, a tutti i costi, di quello spazio fatto di interdipendenze digitali, che da un decennio ormai è la nostra quotidianità. Agognavamo la nostra dose quotidiana di informazioni e social media. Ma il telefono è diventato improvvisamente un oggetto inutile. Inutilizzabile, se non per scattare foto, e che, a causa della modestia del mio Motorola vecchio di 4 anni, ho potuto facilmente rimpiazzare con la mia macchina fotografica di media qualità.
E’ stato in uno sperduto McDonald’s nella Navajo Region, dopo ore ed ore di forzato off-line mode, che siamo riusciti, sebbene a fatica, a riattivare, con un certo sollievo, i bip-bip delle notifiche, tutti quelli accumulati ma non ancora ricevuti nei giorni passati. Ed è in questo sperduto McDonald’s che veniamo a conoscenza delle ultime notizie riguardanti lo shutdown. Quel titolo che sa di speranza, ma ad un prezzo troppo alto da pagare.
Sapevamo già che la crisi di governo in atto in questi giorni aveva visto coinvolto in prima linea Mario con le altre migliaia di dreamers. Ma quest’ultima notizia, quest’assurdo mercanteggiare sulla vita delle persone, ci appare come un affronto se non una pagliacciata. Il Presidente degli Stati Uniti vuole barattare la costruzione del muro tra Messico e USA con una sorta di tutela per questi giovani “sognatori”?
Più leggiamo e più capiamo che questo “deal” proposto dal Presidente per porre fine alla crisi non è conveniente né per Mario né per gli altri dreamers. “It’s bullshit!” I sognatori non risolverebbero il problema, con un permesso di tre anni, invece che di due anni, come quello che posseggono già.
Mario è nato in Messico, ma è cresciuto nell’isola di Manhattan, nel quartiere di Washington Heights, dove da generazioni convivono Dominicans, Mexicans, African-Americans, White Americans. Mario è un dreamer, uno degli oltre 800.000 giovani che fanno parte del programma DACA istituito dal Presidente Obama nel 2012 per restituire il sogno di un futuro ai quei bambini considerati fino a quel momento, “undocumented,” solo per aver subito la radicale scelta dei genitori – quella di migrare in un paese non accogliente, ma più ricco, dove seppure vivendo nell’ombra, la libertà e la felicità sembravano più a portata di mano. Forse.
“Ogni due anni” afferma Mario, trattenendo a stento uno sfogo di rabbia, “da quando Obama l’ha istituito nel 2012, rinnovo il mio permesso di lavoro, e mi costa, ogni volta, la bellezza di 700 dollari… Siamo circa 800.000 a doverlo rinnovare, 800.000 dreamers, così ci chiamano perché sognamo un futuro in questo paese, dove siamo cresciuti ma che non possiamo ancora chiamare casa… fatti due conti. Quanto ci sta guadagnando il governo su di noi? Per non parlare del fatto che ogni primavera pago, puntualmente, le mie tasse…”
A mente, faccio un conto approssimativo dei miliardi che il governo si intasca con tutti questi giovani portati negli Stati Uniti da genitori quando erano troppo piccoli per decidere del proprio futuro, senza passare dalla frontiera ufficiale, oppure, come nel caso di Mario, passando proprio attraverso la frontiera ufficiale, sotto gli occhi complici di un ufficiale che, guarda il caso, non si è neppure accorto di un piccolo gruppo di messicani senza passaporto o visto americano che gli sfilavano sotto il naso.
“Questa proposta del Presidente è una truffa vera e propria, è pura propaganda. Non risolverebbe un bel niente. Resterei sempre intrappolato dentro questa Golden Prison che sono per me gli Stati Uniti d’America.” Mario afferma con impeto. Io non dico niente, cerco solo di nascondere a stento un velo di tristezza nel mio tono di voce, quando poco dopo riprendo il discorso:
Se potessi andrei dritta dritta alla Casa Bianca per parlare con il Presidente. Gli direi…