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Verso Sud. La città degli addii.

Aveva il bianco degli occhi appena arrossato attorno all’iride verde e allora ho pensato, “Sta lì lì per piangere”. Mi ama, non può non amarmi. Vorrebbe stare con me, sicuro lo vorrebbe con tutto il suo cuore. Ma la vita, la nostra stessa vita, è sempre fuori controllo, e le decisioni che prendiamo contano poco e niente. La verita’ e’ che la sua carriera di pianista affermato non gli consente di avere relazioni stabili. Non è una cosa personale nei miei confronti. Non può permettersi di avere girlfriend.

Nonostante il vestito scollato, mi sentivo soffocare. Una sciarpa di lana attorcigliata forte forte attorno al mio collo. La mia bocca era asciutta e le mie mani sudate.
E se fosse tutta una farsa? Se stesse recitando per non farmi soffrire?

“Sara, io non posso avere nessuna relazione in questo periodo della mia vita…”

“Sara, io non provo lo stesso che provi tu, perdonami…”

“Sara, se ci fossimo incontrati in periodi diversi della nostra vita…”

Sedevamo fuori un ristorantino italiano tra la 25th street e Lexington. Era un afoso pomeriggio di fine maggio, le nuvole pesanti nel cielo le sentivo ronzare sulla mia testa. Provavo uno strano formicolio tutto attorno al mio corpo, una frenesia di correre lontano da tutti nelle mie gambe, una voglia di scomparire all’istante per uscire da un labirinto di emozioni. Eppure dall’esterno, nessuno se ne stava accorgendo. Era tutto calmo, il mio respiro e l’aria densa attorno. Erano appena le 2 del pomeriggio. Poca gente per le strade, noi gli unici clienti del ristorantino.

“Non ti preoccupare, Sergio, non c’è problema… capita, sai…”

Sentivo la mia stessa voce uscire dalla mia bocca e risuonarmi dall’interno. Non ero io a scegliere le parole. Semplicemente uscivano da se’, come un copione recitato senza alcun pathos. Poteva essere un computer a parlare, non io, e nessuno se ne sarebbe accorto.

“Everything is ok, guys?” il cameriere si affacciava sul nostro tavolo.

“Sì, grazie, può portare il conto”, ha risposto Sergio.

Un mondo fatto di frammenti confusi, il mio. Lo scorrere del tempo aveva perso la sua solita continuita’ e le cose apparivano ai miei occhi come oggetti slegati dal contesto. Le gambe del tavolinetto di legno, non perfettamente allineate; le dita delle sue mani muoversi freneticamente, ticchettare il tavolo di tanto in tanto; i suoi piedi battere su e giù; una nuvoletta solitaria nell’angolo del cielo passava distrattamente negli angoli piu’ periferici del mio campo di azione visivo; il ramo di un’acacia, un muoversi di foglie; la sua fronte corrucciata, a formare un numero 11, nella intersezione tra le due sopracciglia; le sue labbra come un cuoricino quando sorrideva, lasciando intravedere i due incisivi sulla sinistra.

Ha pagato il conto. Ho visto le sue mani aprire il portafogli e tirare fuori una banconota da 10 dollari.

“No change, thanks”, ha detto al cameriere.

Si è alzato ed io automaticamente ho fatto lo stesso.
Frammento dopo frammento, la mia realtà si srotolava come una pellicola di qualche film muto. Ogni movimento era rallentato, robotico. E il silenzio era totale, eccetto che per le poche frasi scambiate tra di noi. Era tutto ovattato attorno, come qualcuno avesse messo ‘mute’ sul volume dell’universo.

“Sara…” ha allargato le braccia per abbracciarmi.

“Sergio, non c’è problema… figurati… così è la vita…”

Poco prima di girare l’angolo, si è voltato dalla mia direzione. Ha abbozzato un sorriso, di nuovo un cuoricino sul suo volto. Poi è scomparso.

“Non c’è problema, così è la vita…”

Il silenzio si era fatto opprimente, nel petto sentivo un rullare di tamburi. Stavo impalata in mezzo alla strada, incapace di avanzare di un passo.

“Non c’è problema… se non te la senti, non te la senti… Nella vita esistono anche le citta’ degli addii.”

A un certo punto si è fatta notte. Il cielo ha calato un sipario di stelle, e il sole è scomparso dietro l’Empire. Ha iniziato a tirare un vento forte, e sono caduti palazzi, i cui vetri sono schizzati su tutti i continenti ma nessuno è rimasto ferito. Sono piovuti raggi di luna su tutta la terra, e la mia voce, era la mia stessa voce, risuonava per deserti, montagne, correndo sulle onde del mare.

“Sei un idiota! Dove vai? Sei mio! Te ne vai così, vorrei baciarti, vorrei stringerti a me, c’è un mondo lì fuori che aspetta noi, non te ne rendi conto? Non vedi i raggi di luna che hanno ricoperto la terra per risvegliare i cuori? La vita è incanto, magia, e’ ricorsa dei sogni ed io voglio creare mondi di sogni con te, non lasciarmi. Tu sei la polvere prodigiosa che rende il mio mondo desolato, una foresta di sorrisi. Sei un idiota!”

Ho iniziato a camminare facendomi spazio tra i resti dei palazzi caduti a terra. In giro non c’era più nessuno, eccetto che per qualche venditore di rose.

“Sono rose speciali, queste, sbocciate da raggi di luna”.

Verso Sud. Dopo la tempesta lunare.

Nella città non c’erano luci e nessuno usava chiamarla più New York. Era conosciuta come la Nera Città Vecchia, the Old Dark City o semplicemente una città come tante. Ogni cosa era rotta e alla Statua della Libertà era caduta la fiaccola. Non c’erano più forni a legna nei ristoranti ed era diventato impossibile trovare una pizza come si deve, neppure nell’East Village o nella Little Italy del Bronx.

Era notte 24 ore al giorno, ma per fortuna c’era la luna e qualche stella e una miriade di rose innaffiate con raggi di luna.
Avevo deciso di starmene in casa per almeno una settimana per abituarmi alla nuova città, ma la mia casa era senza soffitto. Era schizzato via nell’oceano ed era affondato nel fondale marino più profondo. Mi sono arresa e ho cominciato a camminare verso Sud.

Per ore, forse giorni. Ho perso il conto degli orologi usurati buttati via. Quando il tempo tornerà a passare con il suo ritmo di sempre?

Camminavo e camminavo. Sempre con il profumo di rose a tenermi compagnia. Era rimasto solo l’odore perché a poco a poco erano state tutte svendute a prezzi stracciati dai venditori di rose. Era l’unico mestiere rimasto al mondo quello di venditore di rose.
Avrei pagato oro per mangiarmi una bella pizza croccante o un hamburger sugoso, ma in giro l’unico cibo che si trovava erano briciole di pane secco arrivate dal passato con folate di vento.
A un certo punto ero stanca morta di camminare e per giunta la luna non smetteva di ridermi sulla testa.

“Che c’è da ridere lassù?” le ho chiesto allora.

“Sei buffa!”

“Io? E perché? Non mi vedi che sono sfinita, non ce la faccio più a camminare e tu mi prendi anche in giro? Non è mica carino da parte tua!”

“Dai, non prendertela! E che quando v’innamorate voi umani, create dei mondi tanto bizzarri!”

“Che vuoi dire?”

“Guardati attorno. Non c’è una sola cosa che funzioni più nel verso giusto nel tuo mondo. Non c’è un palazzo messo su per dritto. I soffitti sono tutti affondati negli abissi dell’oceano e questo profumo di rose è talmente forte che mi ha fatto venire un mal di cratere… Ecciu’! E mi sa che sono anche allergica alle rose!”

“Uffa! E che posso farci? E’ successo!”

“Eh… dicono tutti così. Bah… sarà forse che non avendo un cuore, non riesco a capire che forma hanno le emozioni”.

“Eh, la fai facile tu! Se non hai un cuore, non devi avere neppure uno stomaco credo. Io invece ce l’ho e mi sto morendo di fame…”

Ed ecco che la luna si è trasformata in una bella pizza Margherita. Rotonda, perfetta, croccante, con mozzarella filante e un petalo di rosa al centro.

“Avrei preferito del basilico fresco” mi sono detta.

Gnam. Gnam.
Dopo pochi morsi il mondo era già al buio. Se non fosse stata per qualche stellina sparpagliata qua e là nel cielo scuro come una pozzanghera di fango, avrei perso l’orientamento.
A sud, a sud!
Il cammino è ancora lungo. Come vedi sono ancora qui, nella città dove ci dicemmo addio.

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